29/11/1978 - 251 - Salmo 10

29/11/1978

251. Salmo 10

29 novembre 1978

È un Salmo in cui è sottolineata la fiducia, il senso di responsabilità, il coraggio.

Perché fuggire come un uccello spaurito? Perché andare ai monti in un luogo nascosto e tranquillo?1 Bisogna rimanere al posto in cui ci ha messo la volontà di Dio nostro Signore. È tanto facile quando il dovere quotidiano si appesantisce, quando subiamo le incomprensioni più strane e inaspettate, soprattutto quando le tentazioni (i nemici) ci tendono insidie, aver voglia di scappare. “Chi me lo fa fare?” – si dice. Vengono in mente tutti i pretesti per sganciarsi. Si ricorre a falsi motivi di bene, a pretese ragioni di convenienza o di umiltà.

I consigli della prudenza umana: “Non comprometterti”, “Non sbilanciati troppo”, “Sta’ a guardare”, “Non esagerare”, “Sta’ fuori da una comunità di esagerati”.

Non si sa mai: i cattivi sono in agguato, per colpire. L’immagine dell’uccello spaurito è molto plastica. Dobbiamo abituarci a non aver paura e a renderci forti contro i nemici e con questi amici troppo deboli e calcolatori.

Il coraggio ci viene della sua presenza e dal suo sguardo: “I suoi occhi sono aperti”2. Dobbiamo essere come dei bambini confidenti che stanno tranquilli nella notte quando sanno che la mamma è lì vicino e risponde alla loro chiamata, o come bambini che per fare a modo e non lasciarsi andare a monellerie, per fermarsi nelle loro voglie, devono sapere di essere sorvegliati. Come abbiamo bisogno di pensare anche noi a quelle pupille che scrutano ogni uomo3, quando dimentichiamo con tanta facilità i nostri propositi e siamo presi dalle nostre istintività.

Nella preghiera diciamo molte cose e ci pronunciamo su molte altre e subito le lasciamo cadere ricadendo nei medesimi difetti di prima. Non siamo forse dei bambini sciocchi?

Partecipiamo alla liturgia eucaristica e subito dopo, usciti di chiesa, siamo pronti alle parole pungenti e cattive, a delle impazienze che sono ridicole.

Siamo pigri e svogliati, incostanti e fiacchi nei nostri doveri proprio come uno scolaretto negligente.

È necessario che pensiamo al Padre che ci guarda con amore e vuole che sappiamo vincere la nostra pigrizia per dare alla nostra vita una linea forte e generosa. Il mondo è sbandato, tante anime rischiano di cadere nella dannazione eterna e noi ci perdiamo in una moltitudine di cose che non hanno valore. Ci trastulliamo e la casa brucia; noi stiamo a guardare con indifferenza e stupidità. La nostra responsabilità è enorme, perché il mondo è un’unica famiglia, e noi siamo stati molto donati per essere aiuto a chi ha ricevuto tanto di meno.

“Giusto è il Signore”4. Il servizio del Signore è l’impegno di tutta la nostra vita. Ma proprio perché è il servizio ad una Maestà così grande, non possiamo farlo con negligenza. Maledetto chi fa l’opera di Dio con negligenza. Collaborare con Lui per la salvezza del mondo.

Abbiamo bisogno che Lui ci insegni; non possiamo servirlo senza il suo aiuto. Impacciati e egoisti non vogliamo fare che il nostro comodo. Per fare le cose giuste è necessario che Lui le faccia in noi. Quia tibi sine Te placére non póssumus5. Il primo atteggiamento è allora il senso delle proporzioni, una virtù di umiltà che informi tutta la nostra anima, tutto il nostro operare. Collaborare non è sovrapporsi, non è mettere l’umano al posto del divino, non è voler far dire al Signore la nostra opinione, non è interpretare il Vangelo come pare a noi secondo i nostri capricci. Sentirsi strumenti nelle sue mani, perché solo di Lui gli uomini hanno bisogno e non di noi, delle nostre idee e dei nostri punti di vista.

Arrivare a quel punto di umiltà e a quel grado di purezza per cui la sua parola passi attraverso di noi e arrivi agli altri senza che vi sia il nostro tentativo di deviazione. “Ama le cose giuste”6. Ama questa rettitudine, questo servizio di amore.

“Gli uomini retti vedranno il suo volto”7. “Beati i puri di cuore”8. Non è quello che, con una parola sola, diciamo santità? Non è rimanergli vicino? “Parvim bene vicino a Te” (Giobbe). “Voi mi avete amato” (Gv 16,27). La certezza che il nostro dovere quotidiano compiuto con grande fedeltà è il miglior modo di servirlo e di farlo amare. “Trovata una perla rara” (Mt 13,46).

Diceva Paolo VI: Scopriamo nel rinnovamento della nostra vita il grande impegno, la grande energia, la grande speranza della nostra perfezione umana e cristiana. Quanti si rifugiano nella facile professione: “Io non sono santo” per giustificare la propria mediocrità spirituale e morale e per sottrarsi all’obbligo di una professione cristiana integra e coerente”.

La santità risulta da due coefficienti: il primo è la grazia, lo stato di grazia, la vita di grazia che la fede e i sacramenti ci procurano e che la preghiera alimenta ed esprime. I cristiani si dicono santi perché viventi di questo principio vitale nuovo e divino che è la grazia, l’azione cioè dello Spirito Santo, l’inabitazione di Dio uno e trino nell’anima, che perciò si chiama santa. Questo ineffabile rapporto soprannaturale della nostra anima col Dio vivo, col Dio-Amore, è la perfezione più alta.

Il secondo coefficiente è la nostra volontà, cioè la nostra personale vita morale. Bisogna volerla. Volere vuol dire amare. Questo il Vangelo predica e rende possibile. Quella sola che salva l’uomo, edifica la Chiesa, salva il mondo.

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