16/04/1980 - 251 - Salmo 38

16/04/1980

251. Salmo 38

16 aprile 1980

Il salmista porta il discorso sul dolore e sulla morte. Il problema dei problemi, per l’uomo. Il problema che ci fa sentire tutta la vanità delle cose che passano, delle glorie e delle gioie di questo mondo e che non sono state poste in Dio, nel suo amore e nella sua provvidenza.

“Sono rimasto in silenzio”1. Il silenzio dice tutta la tristezza e l’enigma dell’interrogativo: in sé non vi è spiegazione, perché quando meno te l’aspetti devi troncare tutto, perché anche le cose più belle, gli affetti più profondi devono venire interrotti.

L’angoscia della morte. Si muore soli; la separazione tra chi parte e coloro che rimangono è totale, irreversibile.

“Solo un soffio ecc…”2. La riflessione si impone. Non si può e non si deve chiudere insensatamente gli occhi e non pensare alla morte, altrimenti non si pensa nemmeno alla vita.

“Ricordati, o uomo, che sei polvere ecc…”3. Tu morirai. È di una sicurezza estrema, come è di un’incertezza assoluta quando e come morirai. Ricordatene quando la tentazione spinge e fa velo, quando una soddisfazione sciocca e futile ti vuol portare a disprezzare Dio e la sua volontà, quando ti spinge a far del tuo piacere un idolo cui sacrificare tutto, quando vorresti essere il centro di attrazione, di tutto. Ricordati, allora, che verrà un giorno che il tuo corpo, divenuto un cadavere in dissoluzione, sarà oggetto di paura e si affretteranno a chiuderlo bene perché non ammorbi l’ambiente e, così, seppellito e dimenticato. Ricordati allora che la tua anima comparirà davanti a Dio e nella verità dovrà rendere conto di tutta la vita, di tutte le cose, anche le più nascoste, anche di quelle che hai voluto nascondere a te stesso, tanto erano vergognose e disonoranti, di tutto il profluvio di grazie che Lui ti ha donato e che tu hai disprezzato. Ricordati che dovrai lasciare tutti i beni di questo mondo; non porterai nulla con te - solo, nudo, spoglio -, solo la tua responsabilità di quello che hai avuto - ed era dono di Dio -, e lo hai adoperato unicamente per il tuo egoismo e il tuo piacere, di quello che non hai lasciato agli altri, di quello che hai sciupato per capriccio mentre i tuoi fratelli languivano nel bisogno o morivano di fame.

Bisogna ricordarsi di tutto questo; bisogna ricordarsene ogni giorno per la riflessione di salvezza, non per il terrore.

“In te la mia speranza”4. La vita e la morte non si spiegano senza Dio e la sua parola. Bisogna solo imparare l’arte di morire bene. È una grazia di Dio una morte serena. Una grazia che dobbiamo impetrare vivendo nel suo amore e nel suo timore. Il nostro morir bene non si decide nell’ultima malattia o quando si capisce che si avvicina il momento; tutta la vita deve costituire una preparazione.

Ecco perché il mondo moderno tenta la «rimozione» della morte, poiché si viva di un brutale istinto e non si dia alla propria esistenza quella dignità e quella nobiltà che il Signore ci ha insegnato.

Un grande santo del Medioevo, san Pier Damiani, aveva dettato un’epigrafe per la sua tomba, un’epigrafe che traduce bene tutta la vanità di chi vuol dimenticare, voleva che tutti riflettessero e meditassero. Aveva scritto: “Ciò che tu sei io fui; ciò che sono sarai. Non ti attaccare a questi esseri, i quali tu sai dovranno perire. Sono dei fantasmi, un nulla, che precedono il vero, il reale. Dei secoli succedono agli anni che fuggono. Vivendo, rammenta la morte, così potrai vivere per sempre. Tutto ciò che oggi è deve passare. Ciò che dovrà restare per sempre si avvicina. Come ha giudicato bene chi ti ha abbandonato, mondo malvagio. Perché è meglio morire a te nella propria carne che per la carne far perire l’anima propria. Preferisci le cose celesti alle terrene, alle caduche le eterne. Diventata libera, la tua anima torni al suo principio. Raggiunga le alture il tuo spirito, ritorni ai luoghi donde gli è venuta la vita, lasci al di sotto di sé ciò che lo trattiene in basso. Per favore, ricordati di me. Riguarda con pietà queste ceneri di Pietro. Prega, piangi e dì: «Signore, perdonalo»”.

Certamente la ripugnanza della morte è un dato universale, è venuta come castigo del peccato. Dice Sapienza 1: “Dio non ha fatto la morte ed essa è entrata nel mondo per invidia del diavolo”5. Fino a tanto che non è venuto Gesù; uomo tra gli uomini ha preso le nostre miserie e ha accettato di morire. E anche Lui inorridì di fronte alla morte e pregò il Padre che, se fosse stato possibile, gli fosse tolto questo calice6.

Ma per ubbidire alla volontà del Padre: fatto “obbediente fino alla morte di croce”7, “prese su di sé i nostri peccati e inchiodò alla croce il decreto della nostra condanna”8. E, vinto il peccato, venne vinta anche la morte: “Dov’è, o morte, la tua vittoria? La morte perde il suo pungiglione”9. “Dio ci ha sottratto al potere delle tenebre e ci ha trasportati nel regno del Figlio suo diletto per il quale abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati” (Col 1,13). Come diciamo nella Liturgia: “In Lui morto è redenta la nostra morte, in lui risorto tutta la vita risorge. Per questo mistero nella pienezza della gioia pasquale l’umanità esulta in tutta la terra”10.

La morte del cristiano allora deve essere vista in unione con il suo Battesimo, perché con il Battesimo è divenuto un membro del corpo di Cristo chiamato a condividere la sorte del suo Signore; partecipa la sua morte e dà ad essa la forza dell’espiazione per la salvezza del mondo. Partecipa al trionfo della sua risurrezione.

Alla fine della strada non c’è la strada, ma la fine del pellegrinaggio. Alla fine della morte non c’è la morte ma la vita.

San Paolo sottolinea che la morte è amica della vita, “la morte è un guadagno” (Fil 1,21), è il passaggio alla vita, si entra nel riposo di Dio. Non si affonda nel nulla, nel buio, ma nell’amore del Padre.

“Laudato si\', mi\' Signore, per sora nostra morte corporale, da la quale nullu homo vivente po’ skappare”11. E un poeta pagano, Tagore, diceva: “Il mondo è nato dalla grande gioia; il mondo è conservato dalla grande gioia, e nella grande gioia entriamo dopo la morte”12. Diceva Bossuet che gli uomini vogliono seppellire i pensieri della morte più rapidamente che i morti stessi e non per la paura della morte, ma perché temono il giusto giudizio di Dio.

Viviamo allora con grande rettitudine. Conduciamo una vita degna del Signore, cercando in tutto di piacere a Lui (Ef 4,1), portando frutti spirituali, una condotta pienamente corrispondente al piano di Dio su di noi. I fedeli invocano per mezzo di Gesù. Uniamoci così a Lui per un’intima associazione a Cristo nella redenzione, per il raggiungimento della gloria alla quale siamo stati chiamati.

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  • “È evidente come Don Pietro abbia vissuto il suo sacerdozio
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    Umberto Roversi

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